Cartesio: sommo filosofo o grande naturalista?


Cogito ergo sum: penso quindi sono, esisto. Così Cartesio, il quale fu senza dubbio fra i maggiori filosofi di metà millennio, uno dei più pensatori, dei più critici, probabilmente il più naturalista, sancisce l'esistenza dell'uomo in funzione di "sostanza pensante" e lo stabilisce nel tormento di ricercare l'esistenza reale in contrapposizione al dubbio.

Può parere strano che un filosofo e matematico abbia dato una definizione tanto viva dell'essere. Cartesio, di fatto, volle però dare alla sua celebre frase tutt'altro valore; comunque, forse involontariamente, egli rivelò una grande verità: "la sostanza pensante" propria dell'uomo. Sulla base delle conoscenze attuali sugli organismi viventi superiori, non possiamo dire però che sia soltanto propria dell'uomo, ma certo esso è l'essere pensante per antonomasia: il pensatore fin dalle origini, l'essere che pensando ha rivelato via via tutto lo scibile oggi noto e lo ha coordinato.

Il pensiero umano ha scisso però , nello stesso tempo, le une dalle altre dottrine, pur considerando l'esistenza di una scienza universale: una scienza concatenante tutto il sapere. É infatti oggi più che mai che l'uomo di studio si rende conto che le scienze matematiche, esatte indiscutibili, spiegano oltre che le leggi fisiche anche ogni fenomeno biologico: la vita di ogni essere ci appare coma una successione di concatenazioni, di reazioni e di metamorfosi fisicamente e matematicamente dimostrabili con estremi numerici, di tempo e di spazio, previsti.

La cellula vivente che può riprodursi ininterrottamente, dà luogo ad un fenomeno perennante della vita, che matematicamente si spiega spesso con l'elevazione all'ennesima potenza dell'unità cellulare originaria, si voglia oppure no abbracciare l'una o l'altra delle teorie creazionistiche od evoluzionistiche.

Il "Dio supremo, eterno, infinito, immutabile, onnisciente, onnipotente e creatore universale di tutte le cose che sono fuori di Lui", era nel pensiero cartesiano lo stesso Dio che fece dire a Linneo rivolgendosi al "lectori aequo": «Homo sui conscius Mundum esse Omnipotentis theatrum ....».

Erano altri tempi: gli astri erano allora tanto lontani dall'uomo della Terra, il quale neppure aveva scoperto quanta e quale vita si svolgesse in ogni cellula del suo organismo, per cui ogni fenomeno incommensuratamente grande o, per contro, infinitamente piccolo, si rifletteva nel potere intelligente di un Onnipotente ed Onnisciente ora terribile, ora estremamente buono e giusto.

L'umanità di oggi, che potrebbe essere e si vorrebbe fosse tutta unita e tendente ad un unico fine: il benessere, è invece tanto divisa da non escludere, nel pensiero, la reciproca distruzione in una furia bestiale. Di qui il tormentato dubbio che molti assale sull'eternità, sulle esistenze, sulle teorie filosofiche che si alternano via via proclamandosi nuove e più valide. Ma una cosa è certa ed è certa per tutti: l'esistenza, quindi la vita. Quella vita che come un tenue soffio si perde, la stessa che con sovrumani sforzi si difende, la stessa che si perpetuerà "finché mondo è mondo".

La vita non fu da sempre: essa scaturì da elementi bruti e semplici miliardi di anni or sono. Esistenza però non sempre è sinonimo di vita e lo insegnano i filosofi e specialmente i naturalisti: esiste una rupe che non vive, esiste il vento che non vive, esiste l'acqua, che fluisce e si muove, ma non vive. La vita è ben altro, è l'esistere cosciente ed attivo, pensante, nel caso dell'uomo e forse non soltanto dell'uomo. Ma per l'uomo la poesia di capire di essere vivo è, in un altro senso, in fondo, anche se può parere paradossale, la certezza di morire. Sorte questa che tocca all'uomo da sempre, agli animali d'ogni rango, alle piante.

Solo ai microscopici esseri che pullulano nei mari e nelle acque dolci è riservata una specie di immortalità del protoplasma che li costituisce, il quale si tramanda di generazione in generazione.

Si può dire in un certo senso che vive soltanto la cellula, l'unità vivente in senso assoluto, il tassello che fra tanti, innumerevoli, e deputati a funzioni diverse ed inderogabili, compone il nostro ed ogni altro organismo in un mosaico perfetto, armonico, esempio miracoloso di collaborazione. L'una cellula fa vivere l'altra, spesso tanto lontana nello stesso organismo, cui elargisce una parte del proprio essere per riaverne energia o sostanza, che è poi la stessa cosa.

E tutto ciò è argomento della Biologia, la scienza che cammina con l'uomo, che lo guida alla ricerca del benessere spesso in contraddizione piena con sé stessa e col progresso tecnicistico, quello delle macchine e dei rumori, delle deflagrazioni a livello nucleare e dei veleni, che stanno dilagando.

Si direbbe che l'uomo, senza volerlo, abbia egli stesso escogitato a suo livello le scienze negative e quelle positive, ad imitazione della natura. Da un lato le forze fisiche, dei motori, delle velocità, delle deflagrazioni dovute all'atomo scatenato, ad imitazione dei fenomeni della materia bruta, dai sismi alle procelle , e dall'altro, espedienti tendenti a sanare i morbi, a lenire la fame, a placare gli animi, ad imitazione delle benefiche acque fertili, delle messi opulente, della luce e del tepore che ci vengono dal Sole, di ogni bene che la Terra elargisce.

L'uomo non sempre si considera parte dell'esistenza viva: spesso egli si proclama despota d'ogni forza naturale. Allettato dalle mille esperienze nelle quali la sua intelligenza è trionfata, non pensa che all'infuori del suo essere, forze immani, irrefrenabili, che esso, scatenandole, non potrà dominare mai più, sono capaci di distruggerlo: in un attimo, e possono distruggere pur'anche ogni cellula vivente che si trovi nel raggio del cataclisma, che può essere immenso. Allo stesso modo che i raggi del Sole illuminano e riscaldano la Terra per renderla accessibile alla vita, mentre dal medesimo astro si scatenano radiazioni capaci di uccidere, se non fossero arrestate da un provvidenziale filtro naturale che sta nell'atmosfera e sopra di essa.

Tutto è regolato nell'Universo infinito, affinché l'uomo, i fiori ed i microrganismi vivano. Ma da quando? Dal momento in cui per ogni "categoria" di esseri l'ambiente si fece adatto alla vita. E l'enigma, da sempre, sta qui: nel decidersi ad accettare una delle ormai numerose teorie; le une legate a credi religiosi, le altre neganti ogni esistenza divina onnipotente ed onnisciente.

Prescindendo comunque da qualsiasi indirizzo filosofico, di costume e di religione, i biologi si apprestano quotidianamente al tormento di sviscerare che cosa la vita rappresenti nella sua vera essenza: essi non tendono più tanto ormai a dimostrare se la vita sia di origine divina o se invece dipenda da un fenomeno iniziale avvenuto nel caos miliardi di anni fa e ciò specialmente perché la maggior parte dei fenomeni biologici, anche di quelli rimasti oscuri fino a pochi anni or sono, è stata chiaramente spiegata. La biologia molecolare non lascia più dubbi sull'importanza che i componenti cellulari hanno nel consentire il perpetuarsi della vita, nel riprodursi degli organismi e nell'ereditare essi, i generati dai generatori, i caratteri specifici e di razza e tutto ciò lo possiamo osservare ogni giorno intorno a noi.

Una seconda meta che i biologi si sono posta è la produzione, in laboratorio, di una cellula vivente. Il problema della fabbricazione della sostanza vivente presenta esso pure due facce: da una parte è da auspicarsi la possibilità di riuscirvi ed al più presto, in quanto ciò potrebbe rendere possibile o molto facilitata la produzione di cellule "anonime" capaci, in particolari condizioni, di secernere o sintetizzare carboidrati, proteine, grassi, pigmenti ed altre sostanze che già sono di estrema utilità e che potrebbero forse salvare parte dell'umanità dalla fame; un'umanità alla quale si è prossimi a somministrare carne artificiale: proteine tratte da complesse elaborazioni di idrocarburi. Quando cellule fatte ad arte per produrre materiali utilizzabili in campo alimentare, terapeutico o industriale fossero rese capaci di moltiplicarsi indefinitamente in un substrato adatto, così come avviene per i lieviti capaci di produrre enzimi, l'uomo avrebbe risolto uno dei massimi problemi.

Se tornassimo indietro nel tempo, fino a quando, intorno al 1600 per esempio, Galileo, che è giusto considerare uno dei Padri delle Scienze, dava all'umanità alcune fra le più importanti leggi della matematica e della fisica e scrutava nell'infinitamente grande e nell'infinitamente piccolo, senza ancora aver dissipato in quest'ultimo settore dell'osservabile quanto più tardi Giovan Battista Amici riuscì a mostrare col suo microscopio, ci dovremmo accontentare di vedere le piante e gli animali che anche oggi, con i nostri occhi, possiamo discernere attorno a noi: nulla di più di quanto la vista umana, in verità molto limitata nella sfera delle grandezze naturali, possa scrutare.

In conseguenza di questa limitatezza di indagine ci apparirebbero popolate soltanto di animali macroscopici le acque degli oceani, dei mari, degli stessi laghi e delle terre, e non potremmo spiegarci, per esempio, la ragione dell'arrossamento delle nevi o delle acque, o dell'azzurrarsi della superficie degli stagni o dell'improvviso morire di una piantina che via via annerisce. Non avremmo modo di affermare che migliaia di cellule vive si muovono in una goccia d'acqua e che migliaia di microrganismi vivono nel suolo, almeno fino ad una certa profondità o nelle infusioni e perfino nel sangue.

Al microscopio spetta quindi l'aver rivelato sia l'esistenza del mondo dei microbi sia le strutture degli esseri macroscopici in sui si compongono costruzioni inaspettate e spettacolari. Proprio grazie a questo ininterrotto indagare, i biologi hanno potuto stabilire una specie di scala di complessità nell'ambito dei microrganismi. Sappiamo infatti che ammontano a centinaia di migliaia di specie gli organismi unicellulari e che quelli appartenenti ad alcuni gruppi sono notevolmente semplici nella loro struttura: una sola cellula di pochi millesimi di millimetro, la quale però possiede quanto è indispensabile per vivere e riprodursi.

Coloro che si preoccupano di stabilire quali strutture e forme, e quali dimensioni avessero i primi esseri viventi comparsi sul Mondo, di tempo in tempo mutano opinione preferendo ora immaginare una prima cellula flagellata, ora una prima cellula nuda. Sta di fatto che pullulano oggi ambedue le forme, non solo, me ne esistono di quelle intermedie. Non è possibile quindi stabilire con sicurezza quale struttura sia derivata o regressiva rispetto all'altra. Problematico è pure lo stabilire, posto che oggi è chiara l'esistenza di Zooflagellati e di Fitoflagellati, quale dei due gruppi sia comparso con priorità negli oceani, poiché è qui che con tutta probabilità ebbe origine la vita.

Secondo alcuni concetti si potrebbe arguire che primi a vivere siano stati, anche se sotto forma di cellule semplici e libere, i microrganismi capaci di sfruttare l'acqua con l'ossigeno ed i sali minerali che vi erano disciolti, avvalendosi della luce solare come fonte di energia, così come avviene ancor oggi da parte di tutti i vegetali autotrofi. Soltanto in un secondo tempo sarebbero potuti esistere organismi simili morfologicamente, ma diversi per metabolismo: quelli eterotrofi, atti a trarre dai primi i materiali per il loro sostentamento. Secondo altre teorie sarebbero invece comparse prima cellule semplici, eterotrofe.

Meraviglioso il fatto che molti degli uni e degli altri possano, a seconda delle condizioni ambientali, mutare il loro modo di vivere. La presenza di luce determina la tendenza all'autotrofismo; l'assenza, all'eterotrofismo, per non parlare di quelli chemiotrofici, capaci di sfruttare a loro vantaggio sali inorganici anche in assenza di luce.

Certo, tornando a quanto si è poc'anzi accennato, ci lascia perplessi il fenomeno di duplicità alla quale una cellula vagante nelle acque si sia potuta e possa adattarsi, per sopravvivere, ad essere ora tendenzialmente vegetale, ora animale.

E questa perplessità, colma di ansiosa poesia, la possiamo prospettare con le parole di Cerio: «..risalire più indietro, nel tempo; sperdersi nella folla gelatinosa dei protisti, interrogare la prima, dubitosa cellula il cui nucleo, immerso nel protoplasma incolore, non sa decidersi, se tingerlo in verde o in rosso; se originare un flusso di clorofilla o di sangue, per animare il mondo». Dall'enigmatico punto di partenza si avviano tutte le linee della genesi degli organismi per costituire, in un intreccio complicato, un albero genealogico unico, i cui due rami principali sono costituiti dal regno animale e dal regno vegetale i quali, al loro dipartirsi dall'unico tronco iniziale, si confondono rendendo possibili le ipotesi più varie.

Da quel momento, che si perde nelle prime ere geologiche, le cellule libere in parte rimasero tali e lo sono ancora oggi, figlie dirette delle antiche progenitrici, ed in parte divennero capaci di fermarsi, di fissarsi sulle rupi sommerse, di riprodursi senza più vagare. Esse originarono così colonie ora filamentose ora laminari, dando vivacità al grigiore nel quale tutto sarebbe stato ancora invisibile all'occhio umano che doveva aprirsi tanto più tardi, quando ormai le scene degli oceani e delle terre via via conquistate da forme viventi adattatesi alla vita subaerea, erano allestite. E quelle scene erano popolate da corpi via via più grandi, mobili od immobili, smaglianti di colori, eleganti od invece terrificanti nell'aspetto come lo furono quelli, che in uno sforzo della natura, costituirono un possibile ponte fra i rettili e gli animali più evoluti: uccelli e mammiferi, aprendo una pagina relativamente breve nella storia del nostro pianeta. Le scene cui sopra abbiamo fatto allusione non sono mai fisse: i cataclismi che hanno inabissato i continenti ed innalzato catene di monti non sono più tali, ma non per questo le terre sono statiche. La inesorabile lima del tempo e delle forze della natura modifica continuamente i lineamenti dei paesaggi e di conseguenza anche i viventi vi si adattano ad ogni costo per sopravvivere, migrando, fuggendo, nascondendosi come è avvenuto da sempre negli antri, là dove sussistono i relitti di un mondo trascorso così come lo testimoniano gli sparuti gruppi di animali o le esasperate colonie di piante che, aggrappate alle rupi più in alto, ci parlano delle glaciazioni e sembrano voler sfuggire alle pericolose conquiste dell'uomo.

Carlo Linneo volendo stabilire il concetto di specie, lo sancì con la ben nota frase: «Species tot sunt, quot diversas formas ab initio produxit Infinitum Ens». La specie doveva essere di conseguenza fissa nei suoi caratteri, immutabile.

Tornano ora di fronte a noi i due volti della scienza che studia i viventi, oggi che la Genetica, la dottrina delle origini, ha svelato e dimostrato cose grandi e nuove che valgono a spostare il problema non su un piano più banale o materiale o comunque di soluzione, ma anzi, altrettanto misterioso, in cui però alcuni fenomeni si giustificano con i loro effetti i quali non si possono nascondere né negare.

L'albero genealogico ideale è il frutto di un meticoloso e grandissimo repertorio di indagini che si conducono da secoli e che viene spinto oltre i grandi gruppi: i phyla, le classi, gli ordini e le famiglie, fino ai generi ad alle specie. E queste ultime soltanto, restano ancora, sia pure con interpretazioni più o meno rigide od elastiche, i cardini di ogni identità di essere vivente a cui appartiene ogni individuo: l'unità biologica in senso assoluto.

Un altro naturalista, De Condolle, agli inizi del 1800, definiva la specie "ogni raccolta di individui abbastanza simili fra loro per essere collettivamente distinti da tutti gli altri, interfecondi, e capaci di trasmettere ai discendenti i loro caratteri distintivi".

La specie, dunque, deve rispondere a ben chiare caratteristiche: essere costante nella maggior parte dei suoi caratteri somatici e morfologici e possedere, nel confronto di tutti gli individui che vi appartengono, l'interfecondità, ossia la possibilità di accoppiamenti o comunque di fusioni dei gameti dei due sessi, atta a dar luogo a discendenti i quali, rimanendo nell'ambito degli individui appartenenti alla stessa presunta specie, devono essere a loro volta interfecondi sia fra di loro, sia con i soggetti di altre linee generative derivate dai medesimi genitori arcaici.

Naturalmente anche oggi i concetti generali di specie restano quelli sopra accennati, ma ben altre ricerche si compiono per stabilire l'esistenza di specie naturali vere, le quali possono anche non corrispondere a tutte quelle che la sistematica dei due regni viventi elenca convenzionalmente.

La specie, seppure teoricamente via via più rigida, nei concetti che vorrebbero distinguerla, diventa quasi una ipotesi. La genetica stessa, la quale impernia la distinzione specifica sull'esame cariologico ossia, in pratica, sulla conta dei cromosomi del nucleo cellulare, che in numero costante dovrebbero caratterizzare la specie, incontra sovente condizioni anomale che pongono dubbi e problemi.

D'altra parte è a tutti noto che, sia in natura sia in laboratorio, si possono ottenere ibridi, quindi esiste una possibile interfecondità, fra specie affini, ma ben distinte, nell'ambito di un genere, ben inteso dando luogo ad individui non più interfecondi o fecondi molto raramente.

La pratica dell'ibridazione è oggi sviluppatissima sia in campo zootecnico, sia in quello agricolo, ed è attraverso questi incroci che si sono ottenuti animali con caratteristiche peculiari e piante atte a dar frutti con vantaggi che si riflettono sull'economia. Tali sono, per ricordare un esempio molto comune, le arance ed altri frutti privi di semi o di proporzioni maggiori rispetto a quelli originari.

Parallelamente e quasi in antitesi alla pratica degli ibridi, si svolge quella della selezione, attraverso la quale si tende a mantenere, per la specie che si vuole perpetuare perché utile, o per qualche sua varietà o razza, la linea pura, impedendone ogni possibile contaminazione naturale, e ciò è ottenibile sia attraverso la riproduzione sessuale impiegando soggetti derivati da un'unica coppia di partenza, sia, e ciò naturalmente è possibile soltanto per le piante, mediante l'autofecondazione o la propagazione agamica.

Ecco allora che si avranno animali di razza pura e piante che daranno discendenti assolutamente uguali ai genitori o all'esemplare di partenza, escludendosene, naturalmente, le variazioni individuali possibili senza infirmare le caratteristiche di purezza, specialmente per quanto riguarda le piante.

Con ciò è spiegato come si possono perpetuare gli animali e le piante che servono all'uomo. Questo controllo in natura è in grandissima parte automatico, in quanto sta proprio nella non interfecondità fra individui di specie diverse la fissità di animali e di piante che dalle ere geologiche più remote si sono tramandate fino a noi.

In casi del tutto opposti, come avviene per un genere di piante erbacee delle Asteracee o Composite: Hieracium, le ibridazioni interspecifiche e l'instabilità della specie sono tali, che è praticamente impossibile porre dei limiti netti fra specie e specie. Non si può escludere che il genere Hieracium sia in attiva fase di evoluzione e che trovi, ad un certo momento, la sua stabilizzazione.

I genetisti hanno stabilito che tutti gli individui appartenenti per somma di caratteri ereditari, per omogeneità cariologica ed interfecondità ad una linea pura costituiscano il biotipo, il quale corrisponde, per essere derivato da genitori comuni, al genotipo, che può essere considerato alla stregua di specie elementare. Essa può presentare variazioni individuali dovute a fattori occasionali od ambientali, dando luogo a vari fenotipi.

Le sottospecie, varietà, sottovarietà, razze, forme, linee, cloni, cultivar, non sono quindi che unità sistematiche minori, rientranti nell'ambito della specie, la quale ultima, con le entità precedentemente elencate viene oggi considerata col termine taxon nei discorsi e negli elenchi di fauna e di flora, il quale termine non pone limiti al problema della corrispondenza a specie che si presumono veramente esistenti in natura secondo i presupposti spesso peraltro non controllabili.

Si è fatto cenno, circa la maggiore o minore stabilità della specie, alle modificazioni instabili dovute all'ambiente: dobbiamo aggiungere che questo potrebbe però generare mutamenti anche nel patrimonio genetico, specialmente là dove si verificasse la presenza di radiazioni . Con questo mezzo del resto, sono state ripetutamente provocate sperimentalmente quelle che vengono dette mutazioni artificiali, le quali spesso hanno carattere di irreversibilità.

L'evoluzione poi continua a lavorare sulla specie, perfezionandola ed adattandola alle nuove condizioni di vita, le quali, al contrario, talvolta generano delle involuzioni, ossia dei mutamenti negativi.

Infine, problema quanto mai interessante ed avvincente è quello della ricerca della località dove ogni specie vivente sia comparsa sulla Terra. É in discussione se la speciazione sia legata, a seconda dei casi considerati, ad un solo luogo di esplosione della specie oppure in più punti formando via via gli areali di distribuzione. Il primo caso potrebbe essere spiegato con le numerose entità animali o vegetali da sempre isolate in determinati territori: il lama nella regione andina, le sequoie nel Nordamerica, le araucarie nell'America del sud. Il secondo caso riguarderebbe l'innumerevole repertorio di vegetali per esempio presenti oggi in più punti del globo, i quali, anche se non cosmopoliti, perché non diffusi vastamente ovunque, si considerano costituenti delle aree disgiunte o disgiunzioni, perché non soltanto lontane fra loro ma separate da ostacoli fisici non sormontabili oggi naturalmente dagli individui della specie stessa.

La specie, ora più ora meno stabile in conseguenza della somma dei caratteri insiti in essa stessa, o dovuti a fattori esterni, può presentare durata diversa.

Il decadimento e talvolta la scomparsa definitiva di una specie dalla scena del mondo può essere dovuta ad una lunga, ma determinante variazione in senso negativo dell'ambiente in cui essa si trova. Un esempio molto evidente lo abbiamo avuto con la scomparsa dei grandi Dinosauri: Rettili vissuti durante il Mesozoico. Il loro totale e abbastanza repentino annientamento non è del tutto facile a spiegarsi; vi hanno contribuito comunque i mutamenti climatici accompagnati da immani cataclismi ed a cui sono conseguite variazioni notevoli nella struttura del manto vegetale delle regioni dove essi vivevano.

L'estinzione per cause naturali, sia di vegetali sia di animali, può anche essere conseguente a fenomeni involutivi accompagnati dal graduale, ma inesorabile, indebolimento degli individui, e dalla loro sopraffazione da parte di predatori o di parassiti. Questo fenomeno però non deve essere visto sotto l'aspetto di uno squilibrio dovuto all'incontrollata azione della natura, il che avrebbe quasi sicuramente portato, nel corso dei millenni, ad una catastrofe generale, ma piuttosto, ed al contrario, ad episodi periodici, spesso isolati, attraverso i quali l'equilibrio si è mantenuto a vantaggio di specie destinate ad evolversi ed a sopravvivere.

La scomparsa invece, quale avviene oggi, di specie o di razze sia animali che vegetali, va generalmente ricercata nelle conseguenze di turbamenti biologici dovuti ora direttamente ora indirettamente all'azione dell'uomo.

La vegetazione, intendendo sia il verde plancton delle acque, sia le selve che si ergono sulle terre ove il clima lo permetta, sono il punto di partenza di quella che i biologi chiamano catena alimentare. La rottura di uno degli anelli di questa catena, o peggio ancora l'eliminazione regionale, spesso interessante zone molto ampie delle basi di esistenza di essa, ossia i produttori, determina la scomparsa, or più or meno rapida, di quelli che chiamiamo i consumatori.

L'uomo ha provocato l'estinzione di specie sia vegetali sia animali, per necessità e ciò ha senza dubbio una grande ragione d'essere: i legnami, le erbe eduli, le pellicce, le carni sono da sempre materie prime indispensabili, ma è noto che il trarle dai grandi magazzini predisposti dalla natura doveva accompagnarsi a razionali rimboschimenti e ripopolamenti stabilendo contemporaneamente zone di protezione per periodi di tempo sufficientemente lunghi.

Ora, se possiamo perdonare agli uomini dei secoli passati di non aver provveduto alle rotazioni di salvaguardia con le quali si poteva aiutare la natura a conservare le scorte dei materiali di maggiore utilità, uguale tolleranza non possiamo avere per la società umana di oggi. Ad essa dobbiamo la scomparsa di animali che un tempo dovevano tanto abbondare da essere per consuetudine raffigurati nei graffiti delle caverne o negli accenni iconografici delle arti della prima storia. L'uro, il bisonte, lo stesso orso bruno, il camoscio e migliaia di altri animali non sono più, in molte zone, che un ricordo. I faggi si stanno rarefacendo sulle Alpi, il leccio è scomparso da ampie regioni della penisola iberica. L'uomo oggi corre ai ripari, ma spesso in modo altrettanto irrazionale quanto lo è quello col quale ha via via distrutto quanto più o meno a ragione gli serviva. De resto nessun altro essere vivente ha dato mai prova di tanta crudeltà quanto è grande quella che ha annientato razze altrettanto umane di cui la presunta civiltà si è sbarazzata in nome del progresso: razzismo e genocidio, purtroppo, sono ancora dei giorni nostri.

Con tutta probabilità nessun fenomeno naturale, piccolo o grande che sia, è fine a sé stesso ed inutile in senso assoluto per l'economia della natura; lo stesso eruttar fuoco di un vulcano deve essere visto, forse, nella sfera delle necessità che il globo terrestre presenta per continuare la sua vita. Potremmo meglio dire per continuare il suo declino, poiché le scienze di oggi concordano nel dare alla Terra una scadenza. Del resto essa ha avuto una origine e fu infuocata: è naturale che abbia un termine, anche se non possiamo dire come e quando avverrà. La logica ed i concetti di ieri ci farebbero propendere per un graduale raffreddamento, il che comporterebbe un lento estinguersi della vita, la quale finirebbe, forse, con organismi altrettanto semplici quanto quelli che comparvero per primi: probabilmente non più adatti alle acque di oceani melmosi e caldi come alle origini, ma piuttosto adattati, per processi involutivi di resistenza, ad acque e terre fredde, in cui la sostanza organica farebbe difetto, condannati a languire, a metabolizzare stentatamente.

Questa un'ipotesi vecchia; altre, non meno recenti, tendono a prevedere, al contrario, un finale di fuoco, dovuto secondo gli uni ad una ripresa esplosiva dell'attività solare, secondo altri a perdita totale o parziale dell'equilibrio universale e quindi a possibili collisioni con astri, che per rapporti di massa, potrebbero attrarre la Terra nel loro turbinare, in uno sfascio universale o parziale.

Un po' più fantascientifica potrebbe essere, e non la si esclude però del tutto, una catastrofe terrestre dovuta a quelle immani forze dell'atomo con cui l'umanità in parte si propone fini pacifici, in parte distruttivi, quasi trastullandosi.

Oggi, comunque, per quanto palesi siano i segni di possibili catastrofi, un innegabile equilibrio di forze naturali esiste ancora e tanto più esso è saldo là dove nulla è avvenuto a turbare il ciclo dei fenomeni che, sia pure con innegabile dinamismo, contribuiscono a mantenerlo.

L'equilibrio della natura, infatti, è tutt'altro che statico, in quanto se così fosse, o prima o poi verrebbe rotto, con tutta probabilità, da fenomeni che potrebbero essere estremamente vari, ma inesorabili e che si identificherebbero con una specie di saturazione dell'uno o dell'altro fattore di natura meccanica, fisica, chimica o biologica, il che condurrebbe ad una condizione di abiosi.

Immaginiamo ad esempio che in un complesso organico ed omogeneo di viventi, quali possono essere una foresta, una savana, una massa marina, la vita continui a svolgersi secondo una sola direzione. Così, nei riguardi della foresta, se i cicli stagionali ed i fenomeni meteorologici non intervengono più a modificare la quantità di acqua presente nel suolo essa si stabilizza; ne conseguirebbe, nel suolo, la sua diminuzione fino ad esaurimento. Ciò comporterebbe non soltanto il decadimento della vegetazione maggiore, ma nello stesso tempo l'annientamento del vasto repertorio di microrganismi che nel terreno lavorano a rendere riassorbibili i materiali dell'humus. Il popolamento faunistico soccomberebbe come causa più o meno immediata.

Se ciò avvenisse nella savana, questa, in un susseguirsi di tentativi di resistenza, perderebbe dapprima le grandi erbacce ed i pur radi alberi e finirebbe, con essi, la fauna maggiore. Per un certo tempo sussisterebbero le erbe graminoidi cespitose più xerofile per loro natura, che alimenterebbero pochi minuscoli roditori ed insetti, ma dopo questa steppa, via via più arida, sarebbe il deserto.

Gli stessi fenomeni avverrebbero nella massa marina se l'equilibrio evaporazione-precipitazioni si rompesse. La concentrazione salina delle acque via via si accentuerebbe oppure diminuirebbe fino ai limiti inaccettabili per gli organismi che vi convivono: da quelli del plancton microscopico a quelli maggiori, per rottura di quella che abbiamo chiamato catena alimentare.

Naturalmente gli esempi riferiti possono sembrare paradossali, ma senza dubbio reggono se rapportati a fenomeni della durata di millenni, anche se sappiamo che le possibilità di adattamento degli organismi sono tali da destare spesso meraviglia anche in coloro che della sperimentazione e delle osservazioni biologiche fanno la loro attività specifica.

Gli esempi citati partono da una presupposta staticità dei fattori ambientali fisici, ma senza dubbio effetti analoghi si avrebbero a conclusione di una staticità biologica, ossia se nessun dinamismo intervenisse a mutare continuamente le condizioni di vita, specialmente di quella meno appariscente da cui dipendono le incessanti trasformazioni che avvengono a livello del suolo o nei primi strati di esso.

Grazie invece all'incessante dinamismo di ogni organizzazione vivente, i complessi biologici citati anche se sottoposti ai fenomeni suddetti, subirebbero ben s'intende delle trasformazioni, ma non raggiungerebbero il loro annientamento se non nei casi in cui l'ambiente: clima e luminosità in particolare, diventassero assolutamente estremi. Ne sono esempi, ma fino ad un certo punto, i deserti gelati della Groenlandia e dell'Antartide, i deserti caldo-umidi e gli abissi marini.

Ma se usciamo da questi casi-limite, possiamo osservare come fenomeni che spesso fuggono all'attenzione immediata dell'uomo, mantengono in equilibrio le biocenosi, ossia i raggruppamenti caratterizzati da particolari vegetali ed animali conviventi.

Possiamo meglio prospettare le meravigliose leggi dell'equilibrio naturale esaminando una foresta. É come una grandissima, spesso immensa, costruzione: i tronchi, le colonne, le chiome degli alberi, il tetto. Un tetto che protegge senza coprire del tutto, che permette ai raggi solari di penetrare discreti per illuminare gli strati più bassi i quali essi pure, per vivere, per sintetizzare la prima sostanza organica, trattandosi di piante verdi, autotrofe, hanno assolutamente bisogno di luce.

Le chiome degli alberi, poi, trattengono o meglio frenano l'impeto delle piogge torrenziali se ci serviamo come esempio di una foresta equatoriale, o il peso del lungo innevamento invernale se invece rivolgiamo l'attenzione alle foreste dei climi freddi boreali. Ora esse perdono le foglie ed evitano lo schianto dei rami che risulterebbero sovraccarichi, ora invece non sono decidue, ed allora sia le piccole rigide foglie aghiformi, sia la forma conica della chioma, permettono lo slittamento verso il basso del manto nevoso.

Sia nell'un caso che nell'altro, comunque, le chiome degli alberi centellinano l'acqua agli strati loro sottostanti e questi ne usufruiscono per maggior tempo e con minor rischio.

L'acqua che dopo le piogge stilla dai rami è bevuta dai muschi, i quali la diffondono in parte al suolo che si mantiene fertile e la cede lentamente agli strati più profondi dove ife di funghi e radicelle si associano realizzando la micorrizia: una simbiosi a doppio vantaggio, sotto un suolo pulito: spazzato dagli insetti necrofagi e caprofagi che fanno degli escrementi e dei piccoli cadaveri pasto e scorta per le loro larve, e brulicante d'ogni piccolo essere che rende utilizzabile l'inutile per farlo tornare legno, fiore o frutto e profumo, purché le leggi fisiche continuino a consentire che la pioggia scenda e che il Sole illumini in uno sfolgorio di colori.

Tutto ciò che è stato ipotizzato, descritto, perfezionato, reso esauriente e sviscerato nei misteri più belli che la biologia nasconde, non ci esime però dal meditare sui pericoli che la vita, quella di tutti gli esseri che ci circondano e di noi stessi, sta correndo, e le cause di questi pericoli sono quelle ormai note a tutti: l'incondizionato ed incontrollato sfruttamento, da parte dell'uomo, di ogni riserva naturale. L'esasperazione nel portare ovunque l'aumento di produzione, la velocità, la potenza.

É inverosimile come tutto ciò si possa tradurre in due contrapposti cori: l'uni inneggiante al trionfo, l'altro risuonante accusa. E sull'ideale banco degli accusati ecco il costume, lo stesso pensiero umano, l'iniziativa e le scienze: la chimica, la fisica, la microbiologia, la medicina, le applicazioni agricole. Il peggio sta nel fatto che le accuse si fondano spesso su risultati negativi inaspettati, derivanti dall'applicazione e dall'impiego di metodologie e di sostanze che erano state studiate con ricerche sottili e lunghe proprio a fin di bene o quanto meno con un fine buono, in conseguenza del quale non se ne intravedevano altri, negativi.

Per questa ragione molti prodotti terapeutici, considerati un improvviso mezzo per sanare morbi ancora non vinti, hanno scatenato mali peggiori. Altri medicamenti si sono mostrati non adatti ad ogni organismo, ma ciò si è potuto appurare soltanto a danno avvenuto.

Nel settore alimentare i polli ed altri animali nutriti con mangimi addizionati di ormoni sono stati quasi una beffa del benessere. Gli ormoni impiegati per rendere più pronta la fertilizzazione dei fiori produttori di frutti e per rendere questi ultimi più voluminosi, li hanno resi deformi e forse dannosi.

Erbicidi specifici, diserbanti generici, insetticidi, antiparassitari sistemici, non sono più tanto immuni da processo e non è escluso che dei danni che alcuni potranno fare all'umanità, se ne parlerà fra un secolo o forse più.

Le case pulite, le stoviglie nettate, le tele candide escono dagli elettrodomestici più o meno rumorosi dopo aver lasciato nell'acqua, che si rovescia nel fiume più vicino, ogni sorta di veleno biologicamente non degradabile. Le industrie sfornano macchine d'ogni tipo e potenza, i metalli si plasmano a volontà d'uomo, le materie plastiche servono agli usi più singolari, e le scorie aeriformi o particolate, minute o grossolane, si riversano fuori, ad inquinare ogni cosa.

E come in un gioco pericoloso, si produce e si dovrebbero distruggere i resti: le scorie inutili, ed i mezzi per farlo sono quattro: l'acqua, il fuoco, i mezzi chimici, quelli biologici. Ma ognuno di essi comporta invenzioni nuove, mezzi costosi, impiego di energie e di spazi che contribuiscono in passivo sull'economia umana. Tutto ciò che può essere distrutto col fuoco può essere incenerito, ma i vapori ricchi di veleni ed il fumo costituiscono un nuovo problema. Si può intervenire con filtri e con depurazioni a mezzo dell'acqua, ma questa, finita la sua funzione, ne risulterà inquinata e perciò non immissibile nei corsi d'acqua.

E tutto va al mare: quello che era il depuratore per eccellenza. In esso ogni rifiuto della vita era distrutto o rielaborato ed in parte restituito attraverso la lunga catena di vittime e di prede. Ora il mare è una immensa vasca che minaccia l'umanità: esplosioni atomiche nelle sue profondità o nei suoi atolli affioranti, navi-cisterna che a centinaia ormai riversano in esso oli che impediscono il contatto con l'atmosfera del suo strato esposto, ed oltre a ciò tutti i veleni che vi riversano i fiumi, gli schiumosi e maleolenti vettori dei resti del progresso.

Ecco perché gli ambienti scientifici più umani, in ogni parte del mondo sono allarmati per quanto la scienza e la tecnica hanno fatto talvolta più di male che di bene se ci poniamo un traguardo e lo guardiamo senza paraocchi. Valeva la pena di cercare di trovare tanti rimedi ai mali per crearne di peggiori? Valeva la pena di cercare e trovare tanto petrolio, di ammazzare gente per conquistarne i terreni a sottosuolo coltivabile per appestare l'aria delle città che si reputano più civili, oggi annegate nello smog bianco o nero che sia? E valeva la pena di scoprire tante sostanze chimiche le cui formule non potevano far prevedere gli inquinamenti di cui sono alla base?

La risposta non è di oggi; la potranno dare i biologi, siano essi biochimici, medici o naturalisti dei prossimi secoli, supposto che ancora ne esistano.

Agli stessi secoli spetterà di rispondere anche su questioni che toccano nello stesso tempo la biologia e la morale, e che vanno dalla pillola anticoncezionale all'eutanasia, dai trapianti d'organo al violento forzamento degli scrigni più segreti della cellula: segreti che possono incantare ed inebriare l'uomo al quale spetta di salvare o seppellire sé stesso.

La morte è un fenomeno biologico: senza dubbio l'uomo non potrà mai evitarla; essa si presenta su uno sfondo di ignoto per ogni individuo: uno sfondo caso per caso, di fede, di speranza, di sapienza, di eroismo, di scetticismo, di paura ed oggi, purtroppo, perfino di curiosità.

L'uomo non vincerà la lotta con la morte in senso definitivo: non diverrà immortale, ma è nelle sue facoltà non soltanto non procurarla, ma evitarne tutte le cause che possono renderla possibile prima dell'ora segnata dall'orologio che scandisce gli attimi della vita. Questo lo scopo della biologia, di una biologia civile che forse con un comune immane sforzo l'umanità può ripristinare prima che sia troppo tardi.

Ci sia di speranza la certezza che la natura, in uno sforzo incessante, tenta di riconquistare ad ogni costo lo spazio perduto ed i biologi sanno che se l'uomo abbandonasse le città, esse tornerebbero dominio della flora e della fauna fino al decadimento di ogni opera d'uomo ed al ripristino, nei secoli, fin forse del bosco. Ce lo insegnano i semplici muretti campestri, che via via si tappezzano di muschi e di pianticelle fiorite.

Facciamo sì che l'usignolo continui a gorgheggiare nel folto del bosco al cader del Sole e che le rondini volteggino non soltanto fra le torri cadenti, ma anche presso le nostre case. Rifioriscano sui poveri davanzali i rossi gerani ed echeggino di voci di bimbi i parchi voluti dall'uomo ad interrompere la monotonia degli alveari umani d cemento armato.